«Qui l’ottanta per cento dei tassisti ascolta musica di tango» dice Manuel Cristobal Rey D’Amico non appena l’autoradio intercetta Y todavía te quiero. Con il suo lungo nome da romanzo sudamericano, parla la mia lingua. Mi chiedo se si senta più Manuel o Cristobal, se provi un senso d’appartenenza maggiore per il suono Rey o D’Amico. Mi chiedo se chi ha diversi nomi per definirlo sia più esposto a crisi d’identità o se alla fine tutti quei termini diventino un unico concetto che non può essere spezzato in parti.
Manuel Cristobal Rey D’Amico se ne sta comodo, approfitta del sedile del taxi. Canticchia qualche stralcio di frase, batte il ritmo sulla maniglia della portiera.
Quando scendiamo, apre un portafogli imbottito di banconote. «Non credere che valgano davvero qualcosa» dice notando la mia espressione. «Vedi questi?», sventola quattro lunghissimi pezzi da dieci pesos. «Non fanno nemmeno un euro. Quello che noi argentini abbiamo nelle tasche è poco più che carta».
Camminiamo per Avenida Corrientes: la centrifuga, la lavatrice, l’intestino colorato. Non ho dubbi che in quel momento la città mi stia digerendo. Che mi stia passando attraverso dei raggi laser, che si stia intrufolando nei miei organi, per decidere se le piaccio o no. Lei mi piace, molto. Ma questo non è garanzia del contrario. Sento però che pian piano mi accoglie. Che divento parte del suo circolo.
Le persone si dividono a più livelli: sprofondate nei tombini ad aggiustare qualcosa del sottoterra con la testa che sbuca dall’asfalto, sopra i tetti dei palazzi, tra le inferriate, le impalcature e i fumi caldi del traffico. Uomini che fanno spremute per la strada con un carrello pieno d’arance e una pressa improvvisata, e altri uomini che tostano e caramellano noccioline.
Verdure impilate. Piramidi di peperoni, limoni, arance, pomodori, fette d’anguria. Agli angoli delle strade omini con cassette di avocadi, a ogni passante ripetono «paltas, paltas, paltas» come fosse un rosario. Li vendono per poco e se ne trovano sempre di maturi, da mangiare il giorno stesso.
«Hai fame?» mi chiede Manuel Cristobal Rey D’Amico con il suo nome che forma tutto un concetto.
«Un po’».
Entriamo da Imperatore, uno dei posti migliori per riempirsi la pancia e fare un sorriso, ammesso che il cibo sia una delle cose attraverso cui riesci a dire a te stesso di essere felice.
Manuel Cristobal Rey D’Amico ama la velocità popolare. La velocità del quotidiano. Entri, ordini, mangi in piedi la tua empanada, ti addossi al tavolino alto, stai con una gamba più rilassata ma l’altra pronta, passa un tizio della strada, gli regalano un’empanada, il povero saluta tutti, con quei suoi tre denti in bocca saluta tutti, e il suo saluto è poesia e i suoi tre denti sono poesia.
«Vedi? Questo me encanta».
«Che cosa?»
«Questo ritmo, il non potersi fermare, ma gustarsi un minimo rallentare. Questa fretta di mangiare e andarsene, questa birra fredda in bocca, non conoscere nessuno e in realtà conoscerli tutti. Mi piace».
«Che cosa ti piace?»
«El pueblo».
Il tango si balla (almeno) in due. Fai girare le storie!
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