La pista è circondata da macchie d’erba. Si ha la sensazione di atterrare, sì, ma in un luogo che continua a sostituire la realtà con il sogno. In un “aeroporto reale” c’è solo asfalto. Da dove arriva l’erba? Il vento prodotto dalla corsa dell’aereo spettina piccole spighe di campo, verdi verdi, con filetti dorati.
Nell’atrio: cartelli cartelli cartelli con nomi di gente che non conosco.
Mr Desages.
George Mc Kee.
Leggendo il primo, mi viene da immaginare il Signor Disagio. Forse era seduto nella mia stessa fila durante le quattordici ore di volo. Forse, se avessi guardato meglio, l’avrei riconosciuto.
Ma come spesso accade, non ho guardato meglio.
C’è già chi si scatta le prime fotografie, davanti al McDonald’s o allo Starbucks. Le catene statunitensi colonizzano anche i sogni.
Mi concedo il tempo di una spremuta d’arancia prima di buttarmi nella ressa di taxi che si contendono i turisti fuori dalle porte automatiche dell’aeroporto.
Un ragazzo con vestiti larghi, capelli lunghi e probabilmente due o tre viaggi in India su montagne molto alte e dentro lunghe ore piene di vuoto, si siede al tavolino accanto, dove i genitori l’accolgono con una festa di tutta l’anima.
«Mi niñiiiito» dice la madre gioiosa. Probabilmente non si vedono da molto tempo. probabilmente l’hanno atteso come si attende il Natale, o l’arrivo di un’epoca felice dopo un periodo buio.
«De dónde viene este chico místico?»
«Dormiste algo?»
«Dónde? En el aeropuerto o en el avión?»
La madre tempesta il figlio d’amore, di domande con cui cerca di prendersi retrospettivamente cura di lui.
In generale, la gente sorride. Molto più che negli aeroporti europei.
In generale, la gente ha un punto di autorigenerazione al centro del cuore e della bocca.
La mia giornata prosegue con movimenti di avvicinamento alle pulsazioni di Buenos Aires. Sa tutto un po’ come in Italia, ma leggermente virato su qualcos’altro. Il caffè sa di liquirizia, il basilico di origano, le carote di lievito per condire, gli avocadi sanno da avocadi con molta più erba e foreste nella loro storia genetica: hanno come un gusto di cortecce sacre.
Al Lavadero LAVASOL, un uomo già fuori in strada dice a una donna che non riesco a vedere: «Bueno, mi vida, paso a las seis».
E sulla vetrina si legge: Servicio velet. Servicio de tintoreria.
Vicino a Plaza de Mayo sotto gli alberi piove, ma per il resto no. Allora da dove viene quell’acqua? È il respiro degli alberi? Degli Jacaranda esplosi nelle loro nuvole lilla?
Per strada, le persone sostengono lo sguardo. Donne, uomini, tutti. Di quegli incroci di occhi. Di quegli scavi fulminei nell’anima. Ci si dà l’occasione di conoscersi e si prosegue senza sostare: si è visto a sufficienza per riempirsi di alterità.
Buenos Aires ha un modo di prenderti che non è né completa allegria né completa tristezza. Ha qualcosa di fondo e solo. E al tempo stesso di glorioso e glorificante.
La città, tutta insieme, è un tango che non smette di suonare: la lavanderia LAVASOL insieme alle parole “mi vida”, incroci di occhi, chicos místicos, sorrisi e poi subito pensieri su aerei che volano via senza tornare, piovere e non piovere allo stesso tempo, essere se stessi e contemporaneamente essere virati su qualcos’altro, e poi tutto quel tappezzarsi di cure retrospettive: gesti magici e sfondati che dovrebbero poter agire sul passato. A ogni passo, decidere cosa lasciare e cosa tenere.
È il tango a chiedertelo. A cosa rinunci? E cosa invece ti è essenziale?
Tengo un fiore lilla che mi è caduto dal cielo.
Lascio andare un amore sorto dal centro della terra.
Qui il tango è al tempo stesso la creazione e la rottura di un mondo. Come dover reimparare a dare baci, quando scopri che il vecchio modo non funziona più.
Il tango si balla (almeno) in due. Fai girare le storie!
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