Se viene el agua

9 Marzo 2019

Nella milonga tutto si muoveva e ora invece Buenos Aires è così calma.
L’impatto con l’aria ha l’effetto del risucchio in un nulla. C’è un azzurro mezzo grigio e un quarto giallo. Qualche albero, molta strada.
Faccio cenno a uno delle migliaia di taxi che circolano ininterrottamente per la metropoli. È ora di tornare a casa.

Digli che non sono in casa.

Rene Rosario Ramones mi accoglie nel sedile posteriore. Gli comunico l’indirizzo, leggo il suo nome sul certificato di circolazione. Ha i capelli grigi, metà gialli e un quarto azzurri. Sono i capelli che chiunque dovrebbe avere a Buenos Aires alle sei del mattino.

La città è vuota, ma non vuotissima, in giro c’è comunque abbastanza gente da capire che nel corso della giornata lo spazio libero si riempirà: dalle case fuoriusciranno persone e cani e automobili dai garage.

Digli che non mi aspetti.

Ma per il momento le strade sono sgombre, o quasi.
Le immense strade di Buenos Aires a quattro corsie nello stesso senso di marcia.
È come galleggiare in un polmone con dentro piante, asfalto e passato, e anche solo cinque minuti fa sono un passato con il suo peso e il suo modo di essere ricordato.

Digli che non mi aspetti più. Che non c’è nulla da ricordare, nulla da salvare.

E dal taxi guidato da Rene Rosario Ramones vedere tutto che corre incontro ed entra nell’abitacolo, o forse siamo noi ad andare dentro a tutto, come una capsula nel sangue che risale le vene.

E incrociare lo sguardo di un addetto ai lavori in corso – troviamo quattro secondi di complicità nel battito di Buenos Aires.

E poi vedere uomini che spazzano l’atrio dei negozi con mocio e acqua del mattino.
E vedere gruppi di ragazzi che camminano lungo i marciapiedi, alcuni a torso nudo perché fa già caldo e l’umidità mette alla prova i corpi.
Il cielo è coperto. Rene predice: «Hoy se viene el agua».

Digli che di lacrime non ne ho più. Che di acqua non ne ho più.

E costeggiare cantieri tra le corsie, cartelloni con la scritta “Vamos Buenos Aires” e poi “Mejor acceso a los teatros”. E per un po’ seguire un camion delle immondizie con due uomini appesi ai lati – in piedi, pronti a saltare giù al cassonetto successivo.

E a un certo punto, nell’enorme incrocio tra Avenida Corrientes e Avenida 9 de Julio, assistere allo squadernamento dell’obelisco, al suo apparire improvviso, al suo imporsi come un dio terreno, come se qualcuno aprisse un sipario dove non immaginavi ci fosse un palcoscenico. Ti taglia il cielo e la vista e la città. Ti apre il paradosso di un infinito delimitato da confini, punti d’eternità in mezzo a qualcosa che scorre e finisce e finirà.

Digli che non ci siamo amati abbastanza. Che è finita.

Ma soprattutto, Buenos Aires ti perdona.
Ci sono poche città che lo sanno fare. O almeno, poche che lo sanno fare bene. E alle sei del mattino, dopo esserti strizzato l’anima nel tango, in chi è scomparso e chi è perduto, dopo esserti consumato all’interno della parola olvidar, dopo aver ascoltato le voci e le orchestre e l’umanità e gli amori che tornano quando ormai stavi per dimenticarli, e gli amori che se ne vanno quando credevi stessero per tornare, allora sì: l’unica cosa che vuoi è un po’ di perdono. Por favor.

Digli che tutto il suo non-amore io lo ballerò.
E tutto il suo amore, anche.

Il tango si balla (almeno) in due. Fai girare le storie!

Commenti

Commenta la storia

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *