Se la prigione è il tuo modo di guardare

In pochi sanno il suo nome, ma tutti lo riconoscono per il tatuaggio che porta sul collo. Proprio sotto il mento, al livello delle giugulari, un corvo d’inchiostro nero dispiega le ali. La prospettiva è frontale. Gli occhi del corvo sono perennemente aperti e perennemente guardano. Le persone in milonga si sentono osservate. L’uomo sembra gentile – anche se a volte gli esce un’ironia strana, da chi non ha più pensieri morbidi per misurare la vita.

Qualcuno dice che sia stato in prigione, che una mattina di molti anni fa l’abbiano prelevato dal letto e trasportato davanti a due tizi in uniforme. Poi accuse, tribunali, reclusione. Nelle notti insonni – dicono – picchiettava il ritmo di alcuni brani di tango sulle sbarre della cella. Raccontano che il tatuaggio risalga a pochi giorni dopo la liberazione. Due ali per volare e due occhi per guardare e non farsi più prendere.

Nessuno sa davvero quando abbia iniziato a ballare tango, forse vent’anni fa, oppure dieci, forse da quando suo padre è morto in un incidente stradale (dicono anche questo). Non è il ballerino più abile che esista, ma ha un certo modo di giocare con la musica che forse collega a un certo modo di respirare la libertà. Ogni tanto controlla in basso, per vedere se sta pestando esattamente il punto che voleva pestare. Se i suoi piedi e il pensiero dei suoi piedi coincidono, lo si vede sorridere.

In questo preciso istante, percepisco lo sguardo del corvo su di me. L’uomo si avvicina, si allinea alla mia sinistra, respira dando peso al respiro. Si schiarisce la voce, guarda la pista. Due uomini stanno ballando insieme. Poco lontano c’è anche una coppia di donne. Una ragazza piena di riccioli abbraccia una signora abbronzata, con il vestito asimmetrico. Entrambe sorridono, si stringono forte, occhi socchiusi, mani salde ma aeree, schiene esili eppure presenti.

L’uomo scuote la testa. «Alcune cose non le capisco».
Mi chiedo se stia parlando con me o semplicemente con se stesso.
«Un uomo non muoverà mai il bacino come una donna. E una donna non guiderà mai come un uomo. Non ha la struttura».

Forse dovrei rispondergli. Forse dovrei voltarmi e guardare il corvo negli occhi. Forse dovrei usare la voce. E dirgli che non avevo mai pensato al tango in termini di “estetica del bacino” o di “struttura adatta per fare il leader”. Semplicemente, avevo pensato al tango come a un modo di abbracciare senza porre limite all’infinità degli abbracci.

Mi mordo le labbra, contorco le dita. Ora lo faccio. Ora sì. No, meglio di no. Resto immobile. Eppure vorrei proprio dirgli che l’ultima volta che ho ballato con una donna ho sentito un’energia calda di comprensione, una diversa tonalità del mio corpo. Ad ogni nuova nota attraversavamo strati di tenerezza e sensualità, ed era come scavare corridoi di mistero nella panna e nel vento. Non saprò mai cosa significhi da uomo ballare con un uomo, ma immagino sia un’altra sfumatura del sentirsi umani e comunicare da umani.

Penso a tutte queste cose, ma non faccio nulla. Non mi volto e non parlo. Qualcosa nello sguardo del corvo mi blocca il coraggio.
Dicono che sia stato in prigione dopo aver seppellito sua madre: si era convinto che fosse stata lei a provocare l’incidente del padre. Dicono che in prigione canticchiasse brani di tango, con un sorriso storto e un occhio più aperto dell’altro.

Il tango si balla (almeno) in due. Fai girare le storie!