Il Salón Canning non è “subito”. Non lo trovi dopo la porta del civico 1331 di Raúl Scalabrini Ortíz. Trovi la porta, un paio di scalini, forme geometriche sul pavimento, un lungo corridoio, una galleria, un traforo. T’investe un bianco-luce di muri che sembrano ridipinti da pochi giorni. Forse non è neppure pittura, forse è lacca o colore scoccato da una magia, perfettamente omogeneo. Alle pareti del corridoio sono incorniciate fotografie molto grandi in alta definizione, ritraggono ballerini e musicisti e coppie e pose e abiti sgargianti.
Alla fine del corridoio (dopo un percorso che forse ha un suo scopo di passaggio o catarsi o preparazione a una scena che si apre) una ragazza attende a un tavolino sulla sinistra. Sorride, dice il prezzo dell’ingresso: «200 pesos», l’equivalente di circa quattro euro e mezzo, un nulla insomma. Pagando un nulla, si apre la vera porta del Salón Canning. L’atmosfera è calda, sembra un misto tra una “sagra elegante”, una barca illuminata da filari di lampadine, una sera d’estate. C’è al tempo stesso qualcosa di molto vecchio e di molto giovane. Qualcosa di ordinato e qualcosa di ribelle, come un’energia che vola via, un carnevale che si affaccia e scompare a intermittenza.
La pista è circondata da tavolini: prima, seconda e terza fila. Pavimento a scacchiera, quadri, una gigantografia di una milonga. Foto di milonga nella milonga.
Victor, un vecchio signore seduto al tavolino accanto, mi invita per la tanda. Dopo il primo brano inizia a conversare. Sente il mio accento. Mi chiede se sono uruguayana. Quando scopre che sono italiana, gli s’illumina il volto (o recita molto bene tutta un’aura d’ammirazione). Victor può giurarci: è un pensiero assolutamente condiviso che in Europa in cima alla lista delle migliori ballerine di tango ci siano le italiane!
E poi le italiane sanno come vestirsi (mi squadra e gli sembra di poter confermare quello che ha detto) e l’Italia in generale è un paese da cui l’Argentina dovrebbe prendere esempio: gran lavoratori, grandi industrie e grandi manifatture. Se gli italiani avessero il suolo dell’Argentina, sarebbero «los dueños del mundo» dice Victor: i padroni del mondo.
Per qualche motivo, forse per “onorarmi” o che so io, Victor si sente in dovere di elogiare l’Italia per i successivi trenta minuti: nella pausa fra ogni brano e anche dopo, al tavolino. E anche dopo, al bancone del bar e anche dopo, alla tanda successiva.
Sua figlia fa la hostess e ogni volta gli porta ceramiche dall’Italia, quasi non sa più dove metterle, ma sono meravigliose!
A salvarmi è la programmazione della serata. Un uomo a metà tra un attore, un clown, un mago e un normalissimo essere umano ringrazia tutti per la presenza e introduce la coppia che si esibirà. Ballano. Applausi. Bis.
Si avvicina Héctor, si blocca dopo qualche passo: è appena iniziato un vals.
Héctor storce il naso. Potremmo fare la prossima?
«El vals es mentira». C’è qualcosa del vals che non parla la lingua del tango. È nato altrove, dice riferendosi al Walzer austriaco. Allarga le braccia e rivolge i palmi verso l’alto, per sottolineare l’inevitabilità di quella lontananza d’origine. È come se il vals non avesse abbastanza sangue, abbastanza dolore, abbastanza amore. È troppo leggero. Mente. Illude.
Dopo qualche ballo, Héctor mi dice: «Andiamo alla Viruta. Sta qui a dos cuadras». Salta su dalla sedia, mi prende per mano, riapre la vera porta del Salón Canning, saluta la ragazza all’ingresso, mi guida fuori dal lungo corridoio. Sono le quattro di notte. A quell’ora l’entrata alla Viruta è gratis. Alle quattro e mezza servono medialunas e cappuccino.
Buenos Aires è così: in una stessa notte puoi essere molte persone, camminare su molte piste, trasformarti a seconda della milonga in cui discendi come dentro un apparato digerente, puoi ricostruire ricordi durante un ballo o decidere di lasciarli andare. Puoi appesantirti di passato o ripulirti. Ed entrambe le cose vanno bene. Dici a te stesso che è un percorso con un suo scopo di passaggio o catarsi o preparazione a una scena che si apre.
Il tango si balla (almeno) in due. Fai girare le storie!
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