Il locale lo gestiva un tizio di nome G. Un buon ragazzo, ma quasi sempre pupilla-dilatato. Ce la metteva tutta, era simpatico, chiacchierava molto, forse troppo. Nonostante la buona volontà, faticava a gestirsi la vita. Era come se avesse perso di vista il punto della questione. Quale fosse la questione, poi, nessuno può dirlo per un altro.
Il locale non era male, ricordava certi ambienti berlinesi ma senza il fondo e lo scorticamento della Berlino sperimentale. Ricordava, insomma, una versione meno pericolosa di quei posti in cui puoi giocarti un pezzo d’anima.
Lì si sarebbe svolta la mia prima lezione di tango. Avevo trovato un volantino. Evento, indirizzo, numero di telefono, prenota la tua lezione di prova gratuita. Mi ero appuntata la data nell’agenda, ero curiosa, mi aspettavo – chissà perché – una coppia sui cinquant’anni e il montaggio di una qualche coreografia. Ero convinta che per ballare tango si dovesse sapere tutto prima. Che i passi fossero, come dire, concordati.
La sera della lezione parcheggiai la macchina un po’ distante dal locale. Aveva appena smesso di piovere e l’asfalto dei marciapiedi di gennaio riluceva. Nel tragitto a piedi, con l’ombrello ritratto e gocciolante, pensai “ci dev’essere qualcosa per me, qui intorno”.
Sì, un pensiero decisamente vittimistico: presupponeva che fino a quel momento non avessi davvero trovato il mio spazio, e forse esageravo, e forse ero un po’ imparziale, e forse questa cosa dell’autocommiserazione è uno dei mali peggiori dell’ego, però hey!, avevo avuto un 2015 al limite. Di nuovo: la vittima. Immagino che più o meno tutti a un certo punto si siano ritrovati con la “vita al limite”.
Non mi accolse una coppia sui cinquant’anni, ma un ragazzo che aveva da poco superato i trenta. Ricordo che durante le prime battute che scambiammo, penavo a sostenere lo sguardo, tenevo gli occhi bassi, il collo semi-piegato, probabilmente facevo tutte quelle cose che si fanno con le mani quando si cerca di contrastare la timidezza – arabeschi, involuzioni, spirali immaginarie, spostamento di ciocche di capelli, grattatine sulla guancia, tortura delle dita dietro la schiena.
La lezione andò benissimo, dall’istante in cui una ragazza bionda mi investì del suo entusiasmo a quando compresi (e fu un’esplosione dello spirito) che il tango è basato sull’improvvisazione e sul sentire. Sulla sapienza del corpo, che non è la premeditazione del movimento, ma il vivere il movimento nel momento stesso in cui accade.
In effetti, i miei auspici non svoltarono in malora. Quella sera trovai davvero qualcosa per me, il mio spazio, un mondo da abitare senza falsità, in cui forza e vulnerabilità avevano pari diritto d’esistenza. Mi avvicinai al “punto della questione”. Ciò che allora non potevo prevedere, ma che mi si rivelò con la delicatezza di un segreto che viene gradualmente riconsegnato alla coscienza, è che il tango mi avrebbe aiutata ad alzare finalmente lo sguardo, a dismettere la premeditazione della vita, per vivere.
Il tango si balla (almeno) in due. Fai girare le storie!
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