Come tutte le isole, anche l’isola dei musei somiglia più a un sogno che a un pezzo di mondo reale: quei pezzi a cui puoi attaccarti con entrambe le mani, per fare presa e fare perno e fare strada.
Nell’isola, invece, galleggi e immagini cose che non esistono o non esistono più. Un po’ perché i musei hanno l’aspetto di templi greci, un po’ perché si cammina fra cortili ombrosi, un po’ perché la pietra sembra finta, ma abbastanza solida da dare l’impressione di trovarsi lì da molto tempo. Nel realismo contemporaneo di una Berlino tutta ricostruita, l’isola dei musei è un canto rarefatto al centro di un rumore assordante.
La domenica pomeriggio, in mezzo al sogno hanno messo una milonga. Comincia presto, con ancora un sole fitto, e prosegue lungo la notte finché ci sono gambe disposte a muoversi. Spesso soffia un vento morbido: solleva gonne, capelli, tovaglie. Non si porta più dentro il freddo di marzo, ma il fresco dei primi giorni di luglio in una terra che resta pur sempre una terra del nord.
Mi tolgo le scarpe e mi siedo sull’erba. Ricordo quando lo facevo da bambina. La sensazione dei piedi nudi era l’abitudine. Ora, invece, mi accorgo che arriva come un miracolo. Resto così, a occhi chiusi, tra le note semi-allegre di un vals e un senso di libertà ritrovata che va dall’alluce al tallone.
A mezzanotte decido che è il momento di tornare a casa. Mi alzo e cerco di recuperare le scarpe normali che ho lasciato vicino alla postazione del tdj. Rimango scalza: mi sembra la cosa più conseguente. Senza contare che i tedeschi vanno in giro scalzi di continuo. Almeno in certi contesti. Almeno in certe giornate. Almeno nella mia mente.
Calpesto un vetro di bottiglia, che mi si conficca nella pianta del piede. Ho avuto troppa fiducia nella mia capacità di non ferirmi. Dovrei saperlo ormai: è una capacità che pochissimi esseri umani hanno davvero.
Sollevo il piede ed estraggo il pezzo di vetro. Fortunatamente il taglio è superficiale. Esce un po’ di sangue. Penso: “D’accordo, ora mi metto le scarpe e me ne vado”. Con il sangue quest’isola inizia a essere troppo reale.
Ma il sogno continua. Sai, quei sogni che non vogliono farti uscire. Viene verso di me un omino indiano, vestito di un bianco stirato e abbagliante – appena un grado prima della luce pura. Mi chiede se per caso sto andando via. «Certo» dico.
«Peccato. Volevo ballare con te».
È avvolto da un profumo misto di fiori e incenso. Il vento gli sobilla i lembi della tunica.
Parte la musica. Acconsento a ballare (mai interrompere un sogno prima che sia il sogno stesso a decidere di interrompersi). Alla seconda battuta del brano scopro che tutta la sua voglia di danzare con me è in realtà voglia di parlare. Chi sono, che cosa faccio, perché mi trovo dove mi trovo. Gli dico che a volte vorrei saperlo anch’io e che se avessi una risposta, forse non avrei più bisogno di ballare. Deve accontentarsi del fatto che io sia lì per una di quelle traiettorie imprevedibili della vita che collegano lo studio della filosofia a una milonga nell’isola dei musei.
Il suo volto di vecchio mistico si apre a sole raggiante. Ci sono due lingue, a suo avviso, che sono più adatte di altre a esprimere la complessità dei concetti in un modo cristallino, profondo, duro anche, come dura a volte è la fatica di scavare nell’abisso delle cose. Una di queste lingue è il tedesco. E sì, questa tesi è già stata sostenuta, gli dico. L’altra è il sanscrito. L’omino ha imparato anche altre lingue, ma nessuna, gli pare, ha la stessa potenza, la stessa capacità di presa del tedesco e del sanscrito.
Intanto suona un Pugliese straziante, uno di quei brani che, se non fossi impegnato a parlare di sanscrito e tedesco, ti starebbero strappando il cuore, lo starebbero mandando in esilio in terre sconosciute e, dopo un minuto di apnea, te lo rimanderebbero indietro trasformato e irriconoscibile.
Ma l’omino indiano, la sua tunica perfetta e l’aura d’incenso non sono pronti, in quel momento, a riprendersi indietro un cuore irriconoscibile. La sua volontà di parlare, eseguendo movimenti meccanici per la sordità alla musica, va insieme al desiderio di rimanere nel conosciuto e nel conoscibile.
E intanto il piede mi fa male. Sento il sangue che continua a raggrumarsi in un punto a contatto con la suola. Cerco di immaginare cose che non esistono o non esistono più.
Il tango si balla (almeno) in due. Fai girare le storie!
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