Giglio Pabidoro ha un occhio più aperto dell’altro o, se si vuole, un occhio più chiuso dell’altro. Ti guarda attraverso fessure dispari.
Ha palmi grandi e morbidi, sorriso disponibile, ma fermezza, precisione. Grazia, anche.
È seduto con noi in cerchio, ci racconta dell’infanzia nella pampa argentina.
Nonna italiana, madre mezza italiana, lui un quarto italiano. «Anche se con le frazioni non si fa molta strada» dice Giglio.
La nonna non imparò mai davvero lo spagnolo, la madre imparò entrambe le lingue, una per comunicare con le radici, l’altra per parlare al mondo fuori dalla stanza. Giglio fece come la madre, ma nel suo italiano grammaticalmente perfetto spira l’accento argentino, come un vento che non togli, perché ci sei nato dentro.
Un intero, un mezzo, un quarto: non ha molto senso, tutto poi si mescola con tutto, si ricomincia da strade asimmetriche, percorsi irregolari, il passato si trasforma man mano che lo ricordiamo.
«Vivevamo in questi conventidos» dice Giglio. «Un bagno per quaranta famiglie. Per pulirci avevamo una carta blu, che avvolgeva le mele». Le mani di Giglio si chiudono una sull’altra circondando una mela immaginaria.
Lo vedi il gaucho? Quest’uomo a cavallo che fa una differenza sulla linea dell’orizzonte, quest’uomo che si sposta nella pianura?
La vedi la carta blu? La fila per il bagno?
«C’era già tutto il tango di cui avevamo bisogno» dice Giglio. «Non si tratta solo di un ballo. O di una musica. Il tango è una cultura, un mondo. Tu sorridi tango, soffri tango, ridi tango. Vivi e muori tango. E lo fai ogni giorno. Anche se non lo sai, continui a farlo».
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Il tango si balla (almeno) in due. Fai girare le storie!
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