Le avevano detto che a febbraio il Río de la Plata al tramonto diventa simile a un dio.
«Se guardi verso il sole, l’acqua è un olio arancione e azzurro. Se ti volti, è tutto nero. E tu sei nel mezzo. Non puoi muoverti. Puoi solo decidere dove preferisci guardare».
Da un po’ di tempo Alice non sa dove guardare. Siede al bar della milonga, con la mano destra stringe il polso sinistro. È una circonferenza sottile. Un punto che si spezzerebbe facilmente. Qualche volta le ha fatto male. Ma mai come il cuore.
Un vecchio amico argentino le ha detto che in lunfardo cuore si dice bobo. E bobo in spagnolo significa tonto. Al centro del petto abbiamo un tonto.
Alice lo sa bene. Tonta si è sentita molte volte. Ma non è mai stata capace di ribaltare la situazione. Anche se sapeva di valere, non riusciva a farsi valere. Ha accettato di tutto. Fino a che ne è andata della sua sopravvivenza. È stato merito di un’amica, che un giorno le ha preso la testa fra le mani premendo forte, come a farle uscire gli occhi, e le ha detto: «Io posso ripeterti queste cose infinite volte, ma solo tu puoi salvarti».
Alice siede al bar della milonga, si stringe il polso sinistro, non sa dove guardare e prova a salvare se stessa. Accanto a lei arriva una donna alta, capelli spettinati, corpo stanco. Appoggia la fronte sul palmo della mano, serra le palpebre. Scende una lacrima.
Alice riconosce il lento tragitto umido: le lacrime si dividono in tipi e quelle di una donna che sa di valere ma non riesce a farsi valere hanno un certo modo di non voler uscire, una certa resistenza.
Alice le prende la mano rimasta libera, l’accarezza.
«Come ti chiami?»
«Alessandra».
«Alessandra, una volta un’amica mi ha detto che l’amore non si elemosina. Me l’ha detto facendomi quasi schizzare gli occhi dalla testa. Soffriva per me, era la sua maniera di farmelo capire».
Alessandra fa un cenno con il capo. Le scende un’altra lacrima, più fluida: il tipo di lacrime che si manifestano quando qualcuno ti dà il via: ora sì, ora puoi piangere.
«La mia elemosina si chiamava Federico» prosegue Alice. «Quando ci separavamo, gli mancavo, mi cercava, poi però non riusciva a stare con me. La sua libertà era troppo robusta, troppo importante, troppo rocciosa. O meglio, la sua idea di libertà. Se qualcosa si scontrava con quell’idea, cadeva, punto. Ma nemmeno lui era al riparo dalla solitudine. Per questo a un certo punto gli mancavo, o almeno se ne convinceva. E io tornavo, tornavo ogni volta. L’accoglievo, anche se sempre più debole, sempre più incapace di dare amore io stessa».
Alice toglie la mano da quella di Alessandra, solleva il bicchiere di vino, beve un sorso, riappoggia il calice sul bancone.
«A un certo punto stai così male che cominci a credere di essere sbagliata tu. E cerchi di non fargli vedere che stai male. Pensi che se riuscirai a nascondere il tuo dolore, lui sarà più contento e ti vorrà più bene. Credi che anche tu, a forza di nascondere il dolore, arriverai a dimenticarti del luogo in cui l’hai sepolto. E intanto ti si mischiano dentro le parole e i pensieri, e tutti quei modi sottili di invecchiare di tristezza».
Cuore, bobo, tonto.
Ora Alessandra piange senza nemmeno provare a frenare le lacrime.
«Ho resistito cinque anni. Cinque anni d’infelicità sono un tempo immenso». Alice sorride senza allegria, scuote la testa, beve un altro sorso. «La gioia è contagiosa, ma il dolore crea dipendenza».
Alessandra si asciuga le lacrime, si ricompone. «Perché sei venuta qui stasera?» chiede ad Alice. Forse vuole sapere se condividono la medesima risposta alla domanda.
«L’unica possibilità che avevo per tornare in me era riprendermi il mio corpo. Tutta la sofferenza si era ammassata lì dentro. Il tango è stato il mio modo di salvarmi».
Alessandra si preme le mani bagnate sul vestito. Il tessuto è sintetico, non assorbe quasi nulla.
«Qui ho scoperto una cosa» Alice si alza in piedi. «L’umanità si divide in due: chi sa abbracciare e chi non sa farlo. Ora balla con me».
Non troppo lontano dalla riva, volano farfalle sul Río de la Plata.
Il tango si balla (almeno) in due. Fai girare le storie!
Michela says:
È così. Così ci si sente . Si pensa di essere sbagliati, non ci si riconosce più. È molto triste.
Spero di incontrare anch’io la mia farfalla, magari in un abbraccio di tango